Un romanzo che illumina i nostri destini. Dal più premiato degli
autori italiani, che ha conquistato oltre un milione di lettori in
vent’anni. Siamo storie, siamo le storie a cui abbiamo appartenuto,
siamo le storie che abbiamo ascoltato. E infatti Maggiani ascolta.
Ascolta il fiume di voci che si leva nel canto della nazione che avremmo
potuto essere e che non siamo, le voci di un popolo rifluito dentro
l’immaterialità della memoria. Si insinua nelle pieghe della vita
apparentemente ordinaria dei suoi personaggi e racconta. Racconta di una
madre e di un padre che si spengono portando con sé, prima nella
smemoratezza e poi nella morte, un mondo di certezze molto concrete: la
cura delle cose, della casa, dei rapporti parentali. Rammenta la fatica
giusta (e ingiusta) di procurarsi il pane e di stare appresso a sogni
accesi poco più in là, nella lotta politica, nella piana assolata quando
arriva la notizia della morte di Togliatti.
Racconta, allestendo un maestoso teatro narrativo, della costruzione
dell’Arsenale Militare: un cantiere immenso, ribollente, dove accorrono a
lavorare ingegneri e manovali, medici e marinai, ergastolani e
rivoluzionari, cannonieri e fonditori, inventori e profeti, cuoche e
ricamatrici, per spingere avanti destini comuni, avventure comuni,
speranze in comune. Racconta di come si diventa grandi e di come si
fondano speranze quando le speranze sono finite. Mai si era guardato
negli occhi di un padre così a fondo per domandare una sorta di muto
perdono, più grande della vita.
Nella mitica contea di Maurizio Maggiani ci siamo tutti, a misurare
quanto siamo stati, o meno, “fondatori di nazioni”.
Quarta di copertina
Come
facessero non lo so, ma era tutta gente che sognava mentre lavorava, e
quello che avrebbero fatto con il loro lavoro era la loro utopia.